di Valter Vecellio
La ballerina che venne arrestata e condannata a morte dai francesi nel 1917, nel 1913 si trovò misteriosamente a Palermo dove si esibì in un teatro di second’ordine. Un fatto nebuloso che ancora non ha trovato risposta: perché Mata Hari passò cinque sere in Sicilia? A chiederselo fu anche Leonardo Sciascia, per il quale non è da escludere che si trovasse a Palermo come spia tedesca
Il suo nome è diventato un sostantivo. Parli di spia, e inevitabilmente, se si tratta di una donna, fai il nome di Mata Hari. I francesi l’accusano di essere una spia della Germania; ma anche i tedeschi diffidano di lei, sospettano che lavori per i francesi. Insomma un triplo gioco; destinato a finire male: la mattina del 13 febbraio 1917 Mata Hari viene arrestata, un tribunale francese la processa a porte chiuse. Verdetto unanime, emesso dopo meno di un’ora di camera di consiglio: fucilazione. La sentenza viene eseguita il 15 ottobre di cent’anni fa. Uno dei dodici soldati del plotone di esecuzione ricorda: “C’era una nebbia che si tagliava col coltello, erano le quattro del mattino. Una donna bellissima, elegante, calma e sorridente aspettava d’essere fucilata. Una donna coraggiosa che ha rifiutato la benda sugli occhi. Voleva guardare la morte in faccia. Prima che sparassimo, ci ha salutato con il cenno di una mano”. Quell’ultima sua mattina Mata Hari (vero nome: Margaretha Geertruida Zella; professione ufficiale: danzatrice), si veste con la consueta eleganza, indossa un cappello di paglia di Firenze, ha cura di non dimenticare i guanti; chiede anche di essere battezzata. Un furgone la porta al castello di Vincennes. La legano a un palo. Dei dodici del plotone sparano in undici; otto colpi vanno a vuoto. Uno la colpisce al ginocchio, uno al fianco, uno al cuore.
Il corpo lo gettano in una fossa comune. Inizia la leggenda. Mata Hari (in malese: “Luce del giorno”, ma anche “Occhio dell’alba”), olandese, figlia di un cappellaio e di una casalinga, a giudicare dalle fotografie non è esattamente una bella donna: carnagione scura, capelli nerissimi, occhi castani, è alta, robusta, denti grossi e radi, grandi labbra. Descrizione che stride con quel “donna bellissima” di cui parla il militare del plotone d’esecuzione. Uno dei suoi biografi, Russell Warren. Howe, scrive: “I suoi seni, sempre nascosti dietro due cupolette metalliche ricoperte di pietre scintillanti perché piccoli e sciupati dall’allattamento, vizzi e penduli come fiori appassiti”. Velenosa la scrittrice Colette: “Non sapeva danzare, ma sapeva spogliarsi”. Sfogliamo un rapporto di Scotland Yard, che la sorveglia, quando soggiorna a Londra: “Altezza un metro e settanta; taglia: media; capelli scuri; viso: ovale; carnagione: olivastra; fronte: bassa; occhi: grigio-scuro; sopracciglia: scure; naso: diritto; bocca: piccola. Parla francese, inglese, italiano, olandese e probabilmente tedesco. Donna sfrontata. Vestita elegantemente, abito marrone con bordi in lontra e cappello in tinta”. Comunque ha fascino, e lo esercita con sapienza: tanti cadono ai suoi piedi, e son tutti potenti. Uno è il ministro della Guerra francese Adolphe-Pierre Messimy; ma anche il barone Henri de Rothschild, e Giacomo Puccini. Almeno una cinquantina, gli amanti, a giudicare dalle appassionate lettere che la polizia trova nella sua camera (la 131) dell’Elisée Palace Hotel di Parigi. Uno di loro, il capitano Rudolf MacLeod, che diventa anche suo marito, scrive: “Se potessi liberarmi di questa prostituta, sarei felice. Quanto mi fa soffrire! Non si cura nient’altro che dei suoi piaceri, ed è scandalosa la sua negligenza come madre”. Lei, di rimando, gli promette: “Mi chiedi se son pronta a fare pazzie con te? Beh, sì, dieci volte e non una. Fra qualche settimana sarò tua moglie, siamo fortunati ad avere lo stesso ardente temperamento…Sii forte, per quando verrò da te. Ah, che giochi faremo, come ci divertiremo!”.
Disinvolta certamente: “Recito come recitano migliaia di donne, speculo sulla sensualità. Faccio la coquette”; e ancora: “Adoro gli ufficiali, li ho adorati tutta la vita. Preferisco essere l’amante di un ufficiale povero piuttosto che di un banchiere ricco, provo un grande piacere a fare l’amore con loro”. Personaggio che intriga Leonardo Sciascia, ne scrive in alcune pagine del suo Cronachette, sette saggi, uno dei quali, appunto intitolato “Mata Hari a Palermo”: “I piccoli fatti del passato, quelli che i cronisti riferiscono con imprecisione o reticenza e che gli storici trascurano, a volte aprono nel mio tempo, nelle mie giornate, qualcosa di simile alla vacanza”.
La “vacanza” di Sciascia è relativo a un rapido, misterioso passaggio di Mata Hari a Palermo. La donna frequenta il bel mondo, quella che oggi chiamiamo belle époque; recita nei più prestigiosi teatri (dal “Trocadero” all’“Olympia”, dalla “Scala” al “Moulin Rouge”), frequenta intellettuali e artisti, politici e uomini d’affari. Perché mai per cinque sere, da 4 settembre del 1913 si esibisce in un teatro di second’ordine come il Trianon di Palermo? Sciascia non è per nulla convinto della spiegazione data da Sam Waagenaar, uno dei biografi di Mata Hari: “Era a corto di denaro e doveva esserci dietro un amico molto ricco”. Chi è l’amico (solo amico?) molto ricco? Chissà: Ignazio Florio? Il possidente, tra l’altro, è proprietario del Trianon. Comincia l’inquisizione di Sciascia. Oltre a Ignazio Florio, per Waagenaar, a promuovere la tournée, ci sarebbe anche la bellissima moglie Franca, ritratta da Giovanni Boldini nel celebre dipinto. I Florio, obbietta Sciascia, avrebbero potuto disporre del “Teatro Massimo”: “una ribalta modesta come il Trianon fa pensare a un protettore di mezza tacca…”.
Sciascia ipotizza che Mata Hari sia stata portata a Palermo non dai Florio, ma da “un protettore di mezza tacca: uno di quei tanti baroni siciliani che allora sciamavano (e forse ancora sciamano: più o meno falsi, più o meno squattrinati) tra Parigi e Montecarlo, sollevando nugoli di cambiali che poi venivano a posarsi sui resti dei feudi, sulle ville suburbane e i palazzi cittadini, sui quadri e i mobili e le argenterie”. La diva, nello scoprire che avrebbe dovuto esibirsi in un locale di second’ordine, rifiuta di andare in scena; poi si rassegna, rispetta l’impegno, anche per evitare il possibile sequestro del bagaglio, per inadempienza contrattuale. Gli spettacoli sono solo cinque.
Sciascia però non esclude che Mata Hari, già agente dello spionaggio tedesco, sia andata a Palermo in quanto tale: “Può darsi non ci sia stato di mezzo un barone, e che Mata Hari sia venuta a Palermo perché era già agente dello spionaggio tedesco: con buona pace del suo biografo, che per più di trecento pagine tende invece a dimostrare che non è mai stata una spia”. Postilla: “La convinzione che non fosse in grado di sostenere il ruolo di spia (l’agente H 21) a Waagenaar viene forse e dall’averne scrutato la vita privata, piuttosto semplice e casalinga (e si vedano le pagine che Savinio le dedica nei Souvenirs), e da una supervalutazione degli ingranaggi spionistici e delle menti che le guidano: mentre io credo si muovano sempre – allora come ora – in un giuoco delle parti, e ogni parte in giuoco doppio, di informazioni false ritenute vere e di informazioni vere ritenute false, e insomma in una specie di atroce nonsense. E tante prove noi italiani ne abbiamo avute in questi anni”.
Le pagine di Alberto Savinio su Mata Hari si leggono nell’articolo I misteri di Neully, datato “Parigi, dicembre 1937”: “ricordi francesi” basati sulle confidenze fatte a Savinio da Madame Nez, vicina di casa nonché ammiratrice di Mata Hari. Ne emerge un ritratto diverso da quello della donna fatale, spia pericolosa: “In questo giardino, in questo orticello”, scrive Savinio , “Mata Hari, che diversamente dalla sua vita apparente, era nella vita intima la donna più modesta e casalinga del mondo, falciava l’erbetta per i suoi conigli, concimava la cavolaia e raccoglieva le prime fragole dentro un cestello”.
Fatto è che questa presenza palermitana di Mata Hari resta una nebulosa. Per la spia per antonomasia, vale il pirandelliano uno, nessuno e centomila. E chissà che nel momento in cui il plotone d’esecuzione fa fuoco, e forse in rapidissima successione Mata Hari passa in rassegna la sua breve e movimentata vita, al pari di Vitangelo Moscarda abbia acquisito la consapevolezza di non essere una per tutti, che la realtà non è oggettiva; quanto “nulla” (nessuno) attraverso la presa di coscienza dei diversi se stesso che ognuno di noi diventa nel rapporto con gli altri (centomila).
LA VOCE DI NEW YORK